Considerazioni generali sui principi che sostengono l’identità e l’operato del Dipartimento di amministrazione penitenziaria
Per riprodurre il contesto dell’attuale realtà che amministra le nostre carceri (Dap), in particolare la situazione nella quale si trovano gli Agenti di Polizia Penitenziaria e i Detenuti, mi rifaccio ad un secondo assioma, quello biblico della risposta salomonica, tratto dal primo libro dei Re (1 RE 3,16-28). Nell’articolo precedente ho presentato l’assioma dell’aquila bicipite, che rappresentava negli antichi, il mostrare potere e giustizia che si diramava con convinta autorità al mondo intero. (leggi qui….)
Re Salomone, uomo di saggezza a cui è data la capacità di distinguere il bene dal male, redime la questione di due donne che chiedono il suo giudizio per stabilire la maternità di un bambino. Ordina la smembramento del bimbo, sapendo che la vera madre non avrebbe permesso che il figlio morisse, a costo di non vederlo mai più.
Nel Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, lo smembramento di competenze è un fatto, esclusi alcuni momenti, consolidato nel tempo.
Da una parte i promotion sono i detenuti, nell’altra la Polizia Penitenziaria; le parti indotte a discordia non fanno che rafforzarsi e sbilanciandosi tra opposti sostenitori, non trovano pace tra loro. Così facendo indeboliscono la politica che deve decidere sul chi, sul come e sul perché, lasciando sul terreno richieste costantemente insolute e pretese in aumento, il tutto fuori dalla logica del buon governo.
Oggi in Italia, non c’è Re Salomone e manca un potere di riferimento e di prestigio: la decisione più saggia e giusta viene vissuta come azione di parte, ingiusta, e non accettabile…. e il malumore aumenta e la legge del tornaconto e dell’egocentrico interesse, annulla anche i benefici della parte che è stata premiata. Le due parti, sanno a priori che il giudizio salomonico non si attuerà mai, perché sanno di non essere parti contraenti ma vincenti, comunque. Polizia Penitenziaria e detenuti sanno che il giudizio non si attua, quindi conviene comunque richiedere: ecco che il Coronavirus giustifica le scarcerazioni e l’uso della forza giustifica la repressione.
Una organizzazione deve essere cosciente dei suoi poteri, univoca nell’affermarli e di come intende esercitarli, con quali finalità. Non può uniformarsi alle pressioni ma, viceversa, una volta ascoltate le parti, essere giusta e saggia, lungimirante, univoca, coerente con quanto stabilito nelle sacre stanze, aprendosi al nuovo e al non programmato dalle parte in causa. Solo in questo modo riuscirà a convincere che due madri sono migliori di una, e che un figlio tagliato in due non serve a nessuna.
Nell’assioma Salomonico, se lo riferiamo a parti o corpi dell’Amministrazione Penitenziaria, verificata la possibilità di una convivenza civile e costruttiva, essa deve cercare in se stessa la forza e l’energia del fare e del decidere politicamente, in modo univoco, considerando che decidendo rassicura ed induce la parte a guardarsi e verificare più i punti in contatto che le antinomie.
L’emergenza Covid-19 evoca un’emergenza dentro l’altra. Perché oggi, ad allarme rientrato, delle rivolte nelle prigioni italiane non restano focolai. Ma il bilancio è pesante: 12 morti per overdose, 8 detenuti in fuga nel foggiano, 600 posti letto distrutti, 20 milioni di euro di danni. E così quella che sembrava un’emergenza esclusivamente sanitaria ha invaso altri aspetti del sistema, quelli che rivelano un’Italia fragile, come il sistema penitenziario.
Direi che le carceri non appartengono alla sola amministrazione penitenziaria e che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) non deve più detenere il monopolio esclusivo della gestione della esecuzione penale ma deve compartirla con gli altri attori, snellendosi nelle funzioni e nei numeri. Serve rinnovarsi con una amministrazione agile, efficiente, che risponda in tempi brevi alle sollecitazioni, nella quale si possa pensare che la tecnica della customer satisfaction sia applicabile al sistema dell’esecuzione penale, dove il “cliente” di tale sistema è il detenuto.
Un Dap rinnovato è un Dap che deve avere il coraggio di non essere sempre la fotocopia di se stesso, consapevole che organizzazione complessa più che grandi numeri richiede personale specializzato.
Il mondo delle professioni è oggi molto più vario di quello che vediamo all’interno degli Istituti di Pena; ecco che serve una adeguata formazione degli operatori in particolare quelli di reparto, quelli che sono continuamente a contatto col ristretto e nucleo portante di tutto il sistema carceri attualmente in servizio alla differente utenza, con la selezione di nuove professioni che non guardano solo alla idoneità fisica ma anche culturale (agenti di sviluppo locale, mediatori culturali e linguistici, infermieri, gestori dei conflitti), dando vita al nascente nucleo di trattamento gestionale di reparto, ora considerato il lavoro in reparto la cenerentola del corpo.
La creazione di questo nuovo nucleo di trattamento gestionale di reparto, sarebbe la novità che tutti si aspettano, in quanto unisce compiti di custodia, riabilitazione, e umanizzazione verso i detenuti che Contemporaneamente va rotta la divisione rigida tra militari e civili, va ripensata la scala gerarchica interna e che, ad esempio, i vertici dell’amministrazione si prodigassero più per far nascere un nucleo operatore di reparto, più che per un corpo sportivo!
Speriamo in un Re Salomone, che per la giustizia dedichi molto spazio alla cultura organizzativa che dovrebbe sostenere la riforma dell’amministrazione giudiziaria nel nostro paese. Lo stesso discorso si può e si deve fare anche per quanto riguarda la riforma dell’amministrazione penitenziaria, che non riporti l’assioma dell’aquila bicipite, nella quale le due teste, ognuna urla per se stessa, e a chi è all’esterno arriva solo un gran stridore di voci o poco più.
*Antonio Nastasio è ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza, ha vissuto in prima persona il mondo del carcere degli Anni Settanta.
Fonte: Bergamonews.it